Ci sono libri che, a distanza di tempo, sono dimenticati. L’ho detto e lo ripeterò sempre. Ci sono anche autori la cui fama vive fasi alterne. Ferdinando Camon (1935) oggi è meno noto di qualche decennio fa. Un altare per la madre (1978) oggi è un libro dimenticato.
Mi pare doveroso dire qualcosa del romanzo di Camon.
Il libro
Morta una madre, una famiglia si stringe intorno a un padre per costruire un altare in ricordo di lei. Uno dei figli racconta in prima persona l’esperienza.
Un altare per la madre di Ferdinando Camon è la testimonianza di una morte che accomuna – e ciò è inevitabile, tenuto conto del legame ancestrale sotteso – una donna e un mondo, quello contadino, che è il mondo della madre, del padre, di tutta la famiglia, lui incluso/escluso, oramai uomo di città:
Il loro mondo ha creato tutto, il mio non ha fantasia, non è fatto per superare la morte perché non è fatto per conservare la vita perché non è fatto per i bisogni dell’uomo. Che non hanno fine.
[p. 38.]
La civiltà contadina
Con questo romanzo, Camon conclude il “ciclo degli ultimi”, dedicato alla fine di una civiltà ricca di virtù ma economicamente povera e di povertà perduta. “La civiltà contadina è morta. […] Sono morti una storia, una famiglia, un tipo di uomo, una cultura, una religione, una tradizione”, questo dice l’autore in un’intervista su Wuz.it. Nella stessa aggiunge che l’unico modo per recuperarla è fare archeologia, operazione necessaria perché “la morte di una civiltà […] è il futuro di vasta parte dell’umanità”.
Il romanzo è vibrante, una tensione sotterranea, sommessa eppure potente, ci rende possibile empatizzare con un universo storico e di valori che oramai ci è remoto. Esso rappresenta, come l’altare – appartenente non solo ai vivi ma anche ai morti –, “un ponte fra il di qua e il di là” (p. 104).
Lo scrittore in un’altra intervista (Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent, «Libération», numero speciale 15 marzo 1985) dichiara di aver attuato, con Un altare per la madre, un processo di santificazione: “santificazione come vendetta sociale” dice. Non a caso a un certo punto del libro leggiamo: “quando gli altri muoiono, bisogna inventare una forma di immortalità” (p. 67). Un altare per la madre è una forma di vendetta rispetto all’oblio imposto dall’alto. Leggiamo ancora su Wuz.it:
I ragazzi di campagna sono obbligati a studiare la storia accaduta in città, e a dimenticarsi della storia accaduta nelle campagne, molte volte assai più grandiosa. È un genocidio. Io racconto solo storie accadute in campagna. Sono un vendicatore.
La scrittura secondo Camon
Ferdinando Camon ha dichiarato di scrivere per vendetta:
Se dovessi definire la vendetta direi che è una giustizia nevrotica. Quando dico che scrivo per vendetta, voglio dire che scrivo per compiere una giustizia smisurata, eterna e dunque ingiusta: la scrittura deve essere una esaltazione o una punizione destinata a durare senza fine.
[Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent.]
Questo approccio alla scrittura è giustificato dallo statuto etico che l’autore conferisce a essa: la scrittura, per Camon, “è un lavoro che ha l’etica dentro di sé” (Etica dello scrivere, in AA. VV., La saggezza del vivere, tracce di etica, a cura di Alberto Sinigaglia, Diabasis, 2003): esige sincerità, è una forma di resistenza e di opposizione al sistema, un tentativo di rottura di equilibri preesistenti. Un altare per la madre è tutto questo.
Un altare per la madre, è giusto ricordarlo in una contingenza storica in cui pochi libri italiani varcano i confini del paese, ha goduto di una eccellente accoglienza da parte della critica internazionale. Raymond Carver, tra gli altri, definì questo romanzo “a sublime work of art”.
Ferdinando Camon
Un altare per la madre
Garzanti, Milano, 1978
pp. 124
© Antonio Russo De Vivo 2019