La prima volta che sparii, mi presentai a Isola e dissi “Voglio aiutare le persone”.
Non mi fece entrare.
Il mondo mi riaccolse e mi trattò come uno del quale il mondo stesso ha bisogno, e però solo perché minoranza.
Un giorno un vecchio Veglio della Montagna del monte Fuji mi fermò e mi disse:
“Ce ne fossero tanti, di quelli come te… Sarebbe la fine”.
Gliene chiesi ragione, ma lui non me ne diede. Aveva la barba così lunga che non poteva dire più di una frase al dì. Così aspettai il dì successivo.
“Distinto Veglio della Montagna, oggi che è un altro dì posso chiedervelo: perché se ci fossero tanti come me che vogliono aiutare le persone sarebbe la fine?”
Il vecchio Veglio della Montagna del monte Fuji mi fissò con gli occhi a mandorla tipic montani e mi rispose obbligato dalle circostanze, essendo il dì successivo al dì del giorno precedente.
“Perché la fine del nostro mondo è quando tanti aiutano le persone e tante persone sono aiutate”.
Io ero tentato dall’attendere il dì dopo questi due dì per chiedergli cosa intendesse dire, ma lui, forse ciò immaginando, si mutò subito in djinn per dirmi una cosa tipic djinn:
“Eroe maudit, via da qui che alfin del voyage di te ne faccio gran boccone, eh! Bada!”
Io non mi impuntai, ma raccolsi il sacco e discesi dal monte Fujii mentre il sole sorgeva e un nuovo giorno iniziava.
Frattanto in città girava voce che io fossi crepato. Me lo disse il fantasma di un uomo crepato.
“Io non vorrei crepare” dissi al fantasma dell’uomo crepato.
“Capisco” rispose il fantasma, senza fiato e forma, senza lenzuolo, solo voce d’uomo tipic crepato.
“Io vorrei aiutare le persone” ribadii giunto a chissà quante n volte.
“Capisco” chiosò quella voce, e a quel punto il crepato cacciò dalla voce un dito a indicare una crepa:
“Cadi lì” riaprì così discorso mentre pensavo a quei fantasmi che fanno poche chiacchiere e tanti fatti, proprio come a me piace. Gliene chiesi ragione, orsù.
“Cadi lì che lì pare ci siano stati anche Odisseo e Ulisse e ambedue, così si dice, abbiano risolto cose, lì”.
“Ah, allora, è d’uopo vi cada”.
Ma come è tipic chiacchieroni, caddi non nell’altro mondo esplorato dal duplice eroe dei miti passati, bensì sic et simpliciter in sottosuolo. Il sottosuolo, chiunque abbia una certa qual cultura mitteleuropea e russa e anche un po’ francese, è un luogo malsano laddove le persone non si aiutano ma si invidiano e odiano e spiano e guardano di sbieco e così, come poco lasciava intendere il vecchio Veglio, quando tanti guardano alla vita degli altri poi la situa ristagna e puzza e non ci sono più comunità e senso civico quanto bastano per pensare a sé stessi con profitto per sé et donc anche per gli altri. È proprio vero che l’egoismo capitalista fa collante e rete fra tutti noi umani occidentalisti.
“Tu! Chi sei? Che vuoi? Vattene!”
Io mi girai e vidi un piccolo essere invisibile agli occhi come la bellezza e troppo visibile agli occhi come la bruttezza. Doveva essere un insetto, ma non osai.
“Tu! Tu quoque!”
L’insetto insisteva, e ogni talvolta diceva un fiato fetido si faceva vapore e mi urtava e così io sentivo sin troppo bene.
“Sì, io, perché?” risposi maleducatamente con una domanda come si deve fare con chi ti tratta in modi siffatti in un sottosuolo che esplori una prima e sola volta per casus belli et similia.
“Perché tu hai voglia matta e sbagliatissima di aiutare gente, si vede!”
“Eh, sì, del resto la cultura… la società… i mass media…”
“Lo so, qui nel sottosuolo abbiamo rinunciato tutti a tutto e riusciamo liberamente a odiarci, in tal modo; non si sta così male e tu non sei ben accetto, qui”.
“Eh, indicami la via, allora”.
L’insettucolo in un attimo compilò e stampò davanti a me un libricino di parole.
“Questo è il Tao del Sottosuolo; leggilo ora e a fine libro trovi il codice per uscire da qui e ritrovarti lì”.
Io lessi tutto. Era un rotolo di papiro riciclato a Pergamo, con firma Attalo Fabriano. Di fatto era l’opera omnia di Plutarco ovvero il più grande narratore che la narratologia disconosca, e durante la lettura mi era capitato quel fenomeno strano di viaggiare nel tempo pur fermo nello stesso luogo da buon nomade deleuziano e quel viaggio da fermo mi aveva insegnato tante cose su chi è l’uomo e cosa c’è intorno e sotto e sopra all’uomo. Il codice era la morte di Pirro. Dissi tegola. Mi risvegliai su un tavolo da surf a cavallo di un’onda imbizzarrita e con pochi dubbi sul da farsi.
“Voglio scendere”. Dissi proprio così, senza tanti fronzoli, le parole esatte, sintesi, eleganza frigida. Onda stupì e s’impaurì.
“Subito, Signore” rispose, e repente mi posò in spiaggia.
Faceva un caldo estivo che è il caldo che più odio perché è il più caldo di tutti i caldi che manco a giugno luglio agosto settembre c’è un caldo del genere. Era ottobre, il mese in cui si festeggia il riscaldamento globale.
“Wé, tu, vieni a jucà a palla, muovt’”.
“Uh, bello, mi piace giocare a pallone” risposi con un certo entusiasmo e dimentico della mia situazione a dir poco strana da millenni.
“Ma qua’ pallon’? Qui si gioca a pallacorda!”
“Ah, no, scusa, ho da fare…” mi smarcai subito dall’invito etrusco con parole false ma efficaci, devo dire. La spiaggia era cocente e allora corsi a piedi nudi e con la pelle abbronzata verso il chiosco.
“Una granita a limone, per favore”.
Il saponaro mi porse la granita e io lo pagai in poesie ma lui non capì.
Degustando la granita rinfrescante io pensai. Pensai alla Storia, al Mondo, alla Civiltà e a un certo modo di stare sull’organismo terra che non si poteva più fare. Insomma pensai a cose che pensano tanti oggi, e quando dico tanti dico cosa brutta. A quel punto una donna mi si avvicinò tutta presa dal mio fare pensieroso da esteta protoromantico di un Settecento libertario e donghigliottinesco.
“Bel maschio latino, se hai finito di pensare è giunto il tempo e il tuo viaggio è finito”.
“Ah, sì? Mi spiace…”
“Spiace a tutti noi, ma a una certa, il sole dovrà pur calare…”
Stava proprio tramontando, il sole.
“Isola è lì oltre il ponte che ti aspetta”.
“Quindi hanno fatto pure un ponte, mmm”.
“Questa è una lunga altra storia. Vai, ora, prima che il sole cali tutto a mare”.
E io, non ci crederete proprio, andai.
“Non voglio aiutare le persone”, dissi a Isola.
“Hai appreso! Bravo! A questo servono i viaggi”.
Isola mi aprì le porte sacre dell’isola, le varcai e mi ritrovai in un labirinto, tutti cantavano e ballavano al limite del sogno patafisico, un gattone felice senza baffi mi disse:
“Sei sparito, finalmente! Meow”.
“Sì, ce l’ho fatta, alfine”.
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Antonio Russo De Vivo. Editor freelance.
Ha conseguito la laurea triennale in Lettere Moderne e la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Dal 2014 al 2019 ha condiretto il lit-blog «CrapulaClub».
Dal 2020 dirige la rivista «micorrize».
Ha pubblicato articoli e racconti su lit-blog e riviste: «Fillide», «Flanerí», «L’Inquieto», «Nazione Indiana», «Pagine Inattuali», «Scrittori Precari» e «ZEST Letteratura Sostenibile». Un suo racconto è apparso sul sito web della rivista «Nuovi Argomenti».
Mi è piaciuto molto, è stato come l’ottovolante, era tanto che non ci andavo, anzi, non so neppure se ci sono mai andat* sull’ottovolante, però alcune cose si sanno come sono anche senza averle mai fatte. Però a questo racconto ci penserò quasi tutto il giorno, perché mi ha fatto viaggiare, la sua tristezza era cortese pur… (rimane molto da dire), e le parole giocavano bene.
Grazie per la lettura e per le splendide parole, E.