Questa intervista al critico letterario Alfio Squillaci è la prima del ciclo #intervistesporche.
Il format prende il nome dalla mia passione per il punk e dalla mia volontà di interagire con alcune persone senza troppi filtri, in modo critico e politicamente scorretto. In questi anni in cui si vorrebbe ripulire tutto, dal linguaggio ai luoghi in cui viviamo (non odierò mai troppo il concetto di decoro urbano), è vivificante lasciare delle orme, dei segni, dis-ordinare, “sporcare” se necessario.
Seguo da tempo la pagina facebook / lit-blog di Alfio Squillaci (La Frusta Letteraria) sia perché di spessore culturale, sia perché, come capita sempre più di rado, vi traspare libertà di pensiero e non, invece, necessità di fare pubblicità per vendersi e/o vendere qualcosa né volontà di sfogare frustrazioni personali.
Ho letto con curiosità e con piacere il suo libro Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! (GOG, 2020), un pamphlet contro la nuova moda di vendere corsi di scrittura che, però, è anche un utilissimo testo di scrittura creativa.
1. Partirei dal titolo che potrebbe essere, oggi, un manifesto d’avanguardia: Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! In tempi in cui, su certi livelli, sono diventate scuole di produzione di autori (nota da ricordare: Feltrinelli ha comprato la Scuola Holden), non è un bene che vi siano insegnanti qualificati Ci sono le scuole d’arte, perché non le scuole di scrittura?
Dipende da ciò che vuoi scrivere. Nel mio saggio non chiudo del tutto alle scuole di scrittura (nonostante il titolo provocatorio). È chiaro che se vuoi tentarti nella cosiddetta “letteratura industriale” (serie TV, fumetti, cinema d’azione, gialli seriali, videogiochi basati su tracce narrative, ecc.), insomma tutto ciò che “gira” attorno e in maniera preponderante alla benedetta “storia” sarebbe più che raccomandabile seguire un corso ad hoc per acquisire le tecniche specifiche (vedi p. 57 del mio saggio). Altro è invece se vuoi scrivere La coscienza di Zeno, L’educazione sentimentale, Il male oscuro ecc., quella che io chiamo letteratura “d’eccezione” o di proposta. Qui non ci sono scuole che bastino. Anzi esse potrebbero uccidere in culla lo scrittore davvero vocato.
E poi ti dico questo. Le scuole d’arte (musica, pittura, scultura, ceramica, ecc.) ci sono sempre state per la semplice ragione che c’è una soglia tecnica da superare. Soglia inesistente in scrittura ove bastano una penna, un foglio e una testa, com’è sempre stato.
2. Nel tuo pamphlet, fai un ragionamento chiaro e inappuntabile: in una scuola di scrittura si può insegnare basandosi solo su quanto già è stato scritto, lo scrittore/artista crea forme e linguaggi nuovi che non possono essere insegnati.
Tuttavia, nel finale parli di un giusto mezzo: un autore non per forza deve creare qualcosa di nuovo, può creare facendo interagire il già fatto (le “funzioni” di Propp calate nel letterario) e “la propria anima”.
Il giusto mezzo non giustificherebbe l’esistenza di queste scuole?
Nessun problema. Alludo al fatto che le “funzioni” sono “motivi” narrativi ricorrenti e soggetti a minime variazioni e sono sempre esistite nella millenaria storia della narrazione. Umberto Eco le chiama “cliché” o “calchi” o “archetipi”, Bachtin invece “cronòtopi”, noi potremmo chiamarle “moduli” come le cucine componibili.
Non sono tanti questi moduli: c’è chi dice che a livello di macroplot sono solo due (Franco Ferrucci, L’assedio e il ritorno, insomma l’Iliade e l’Odissea); c’è chi dice sette (Christopher Booker, The seven basic plots); c’è chi dice molti di più. Se vuoi intentare una carriera di scrittore seriale, “industriale”, è meglio conoscerli. Ma basta leggere quei libri o altri ancora, come quello di Jonathan Lethem che, in opposizione a Harold Bloom che aveva orrore delle influenze, elogiava l’estasi delle influenze, che è il titolo del suo acuto e spassoso saggio.
Insomma se vuoi scrivere “storie” quantomeno devi essere avvertito che non sarai mai del tutto originale. Meglio dunque conoscere quei “moduli”: per “fasarti”. E infatti per soddisfare questa istanza basta leggere i libri giusti. Averci il “fiuto” e anche il “fiato” diceva il buon critico siciliano Giuseppe Antonio Borgese. Basta leggere cioè, come hanno fatto tutti gli scrittori, da sempre, che sono andati a scuola di scrittura… creativa, certamente, ma di altri scrittori. “Dobbiamo stare attaccati al culo dei maestri” ripeteva brutalmente Flaubert. E per far ciò, non basta stare chiusi nel tinello di casa propria? Perché sganciare quattrini?
3. Da editor, mi aspettavo qualcosa in più dal capitolo Contro l’editing, per cui ti chiedo: cosa intendi per editing e perché sei contrario?
Sono contrario ai rifacimenti radicali. Scriveva Flaubert in una lettera: “Se avete consegnato la vostra opera, e non siete uno sciocco, è perché la trovate buona. Avete fatto ogni sforzo, ci avete messo la vostra anima. Un’individualità non si sostituisce ad un’altra. Un libro è un organismo complesso. Orbene, ogni amputazione, ogni cambiamento operato da un altro, lo snatura. Il libro potrebbe essere meno malvagio, non importa, non sarà più esso”.
Ora, l’operazione di Gordon Lish su Carver è di questo genere. Di chi è a questo punto il testo? Non c’è stata una sorta di stupro sul testo originario?
Ma anche qui occorre vedere. Prendi il caso del libro di Vincenzo Rabito Terra matta. Si trattava di un semianalfabeta siciliano che aveva scritto in simil-italiano la storia della sua vita in rotoli appassionati di fogli su fogli senza punteggiatura e senza a capo, e nessuna suddivisione in capitoli ecc. Orbene qui l’editing è stato pesante, ma necessario: occorreva portare il manoscritto alla soglia minima e conveniente di leggibilità.
4. Non ho mai insegnato scrittura creativa, ma presto lo farò (immagino). Ti dico come lo farei (e come lo faccio già, durante i miei lavori di tutoring/editing) e vorrei mi dicessi nel bene e soprattutto nel male che ne pensi.
Accetterei una classe a numero chiuso, limitato. Cercherei di essere “maestro” (figura di cui parli nel libro) in queste modalità:
— insegnamento 1 a 1;
— essere guida dell’autore affinché trovi il suo modo personale di scrivere;
— poca teoria e molto lavoro pratico sul testo;
— suggerimenti di lettura individuali, perché io trovo che ogni persona abbia un proprio percorso di lettura, per gusti e per background socioculturale;
— capire la persona che ho di fronte, perché per me viene prima la persona (l’artista!) e poi i testi (potenziali, virtuali: da “scout” mi capita di far cestinare testi e al contempo di dire all’autore che “sa scrivere”; non trovo sia un paradosso, perché un aspirante autore non trova subito la sua scrittura, i suoi libri, e può procedere “per errore”).
Tutto quello che dici tu mi sta bene, ma una cosa che farei io assolutamente, e che credo non si faccia mai, è fare uno screening all’ingresso. Non prendere tutti perché non si può dare tutto a tutti: al “colto pubblico e all’inclita guarnigione” come si diceva una volta. È possibile secondo te insegnare a scrivere se hai davanti in un’aula la casalinga di Voghera, l’ammiraglio in pensione, lo scappato di casa o chi non ha aperto mai più un libro dopo il sussidiario di quinta? È possibile secondo te o è morale rivolgersi a un pubblico generico senza una selezione all’ingresso solo per non ridurre gli incassi? Ma questo neanche nei quiz televisivi avviene. Occorre operare selezioni all’ingresso. È la mia opzione ineludibile.
5. Tra i tanti studi che porto avanti in parallelo con passione e curiosità, c’è la mediologia. Oggi – so di dire qualcosa di inaccettabile –, trovo impossibile separare il testo dalla persona come immagine/personaggio/figura mediatica. Il medium libro non può non interagire con gli altri media, le generazioni dai “nativi digitali” in poi non possono non essere influenzati, nella progettazione e nella divulgazione di un libro (ma anche nella ricezione), dal loro rapporto coi nuovi media.
Tu continueresti a portare avanti una posizione vicina a quella di Proust in Contre Sainte-Beuve, cioè di interesse esclusivo per l’opera e di totale disinteresse per la biografia dell’autore?
No, io sto dalla parte di Sainte-Beuve: l’opera è intessuta della carne, del sangue e del sudore di chi l’ha scritta. Parafrasando Feuerbach che diceva che l’uomo è “ragione imbevuta di sangue” potrei dirti la stessa cosa della scrittura: essa è imbevuta del sangue dello scrittore, che io chiamo semplicemente “stile”. Che è la sua impronta digitale, che si deve subito saper conoscere e ri-conoscere.
Proust si oppone alla tesi di Sainte-Beuve per ragioni private. Egli era propenso a scrivere sull’omosessualità e nella Recherche dice molto di sé. Il suo saggio contro Sainte-Beuve, scritto prima del romanzo, in cui afferma che l’“io sociale” e l’“io profondo” non devono essere confusi, era forse un modo per proteggere la sua vita privata? È la tesi plausibile di Matthieu Vernet, docente di letteratura francese alla Sorbona, a RadioFrance che scioglie positivamente la sua domanda.
So che è una vigliaccata, ma è solo apparente: la personalità dell’artista conta, e più se ne sa meglio lo interpretiamo. Qui vado contro anche il mio amato Flaubert quando scriveva che: “L’artista deve operare in modo da far credere alla posterità che egli non sia vissuto. Meno me ne faccio un’idea e più mi sembra grande. Niente mi posso immaginare della persona di Omero, di Rabelais, e quando penso a Michelangelo, vedo, di spalle solamente, un vegliardo di statura colossale che scolpisce la notte al chiarore delle fiaccole”. Vedi: chi scrive ciò è lo scrittore che confidava all’amica Amélie Bosquet: “Madame Bovary c’est moi”!!!…
6. Un aspirante autore, secondo te, quali figure e esperienze di scrittura dovrebbe evitare? E cosa gli suggeriresti di fare?
Nessun suggerimento e nessun divieto. Erranza assoluta. Anzi un periodo di bohème, di scioperataggine, di cazzeggio giovanile sarebbe raccomandato. Poi quando e se deve scrivere, ah beh, è un momento terribile. Non a caso gli scrittori di genio nei proèmi delle loro opere si rivolgevano alle Muse! La scrittura è alea, azzardo e rischio assoluto. Io personalmente invocherei lo spirito di Flaubert mille volte e mi recherei in pellegrinaggio a Croisset, località vicino a Rouen, dove scrisse i suoi capolavori.
7. Una domanda legata al format di queste interviste (#intervistesporche): qual è la parola che odi di più in assoluto, legata all’ambiente letterario? E quale quella che ami di più?
Io ad esempio odio la parola “amici” che lego a pratiche come “amichettismo” e “non critichiamoci ma volemose bene”; amo la parola “penso” che lego alla volontà di coltivare un modo di pensare individuale, non schiavo di eventi, ruoli e poteri.
Una volta fecero questa domanda a De Chirico. E lui rispose “A prescindere”. E il giornalista lo incalzò: “Quali altre parole non vorrebbe sentirsi dire?”. “È una bella giornata” rispose De Chirico. E il giornalista di rimando: “E se dicessi ‘oggi è una bella giornata a prescindere’, lei cosa farebbe?” E De Chirico rispose freddo: “La accompagnerei alla porta”. E così fece.
Potrei chiudere, ci credi o meno, che non ho alcun interesse verso il mondo letterario. Ho concluso la mia vita lavorativa qualche lustro fa, e da allora ho aperto una pagina facebook (La Frusta Letteraria) ove riverso le mie alzate di ingegno in assoluta libertà. In precedenza ho curato con lo stesso spirito un sito in Rete (dal marzo del 2000 al giugno del 2021) che raccoglieva nel suo momento di splendore – prima degli smartphone che hanno ucciso i vecchi siti con impaginazione per PC come il mio –, anche 7.000 lettori al giorno. Ciò mi appagava. Ho pubblicato due libri che sono usciti senza che io mi sia proposto ad editori e solo in seguito alla loro cortese ed esplicita sollecitazione. Di ciò li ho ampiamente ringraziati e sono loro riconoscente, non sono infatti uno snob. Ma continuerei a comportarmi allo stesso modo.
Il mio motto è quello di Jean Cocteau: “Il faut être un homme vivant et un artiste posthume”.