Zoa e la terra — dico proprio il terreno, l’incolto, il generante la natura — capii subito che era come anima e corpo ma senza il languore dell’anima e senza l’elemento perituro del corpo. Vegetale mobile immortale era Zoa, respirava perfettamente a terra.
Zoa era l’alito della terra.
Un mattino, dalla mia casa in legno isolata in collina, sentii abbaiare, mi affacciai alla finestra e vidi una donna giocare col mio cane. Uscii e era Zoa, che non conoscevo. Mi si presentò — sono Zoa, straniera in tutto — e mi disse “cercavo te, per imparare”. La pelle era e sarebbe stata sempre di un bianco assoluto — “da noi le donne non scuriscono al sole” —, il corpo mai diverso da quel magro sottilissimo troppo — “io ero malata, in parte lo sono restata” —, i capelli sul rosso ramato scuro — “dentro sono d’autunno” —, le labbra accentuate e accese di rosso — “sul bianco, il rosso delle labbra è lava da vulcano innevato” —: non doveva aggiungere di essere il gelo in attesa dei terremoti.
Chiesi cosa potesse apprendere da me che ho consumato gli ultimi anni a allontanarmi dal mondo facendomi allontanare.
Prese una foglia da terra, era novembre, e la foglia, del medesimo colore dei suoi capelli, da rigida si sgretolò e fu polvere al vento.
“Io voglio provare esattamente questo”.
Non capii, la accolsi in casa, stupii della sua lunga veste fina aperta a mostrare lo spazio liscio tra i seni piccoli: faceva un freddo non rigido ma abbastanza, un freddo di cui soffrire. Sfiorai appena il tessuto, per caso, ed era, quello, più freddo del freddo circostante.
Il divano all’ingresso le andò bene, Zoa non si lamentava mai. La prima volta che dormì — cioè subito appena entrata in casa — si risvegliò il giorno dopo alla stessa ora in cui mi si presentò: ore 16 circa.
Di nuovo in sé, mi disse che un giorno sarei stato per sempre solo.
“Io sono già solo, da tempo”.
“No, hai il cane che ti sta insegnando a stare solo”.
“E tu?”
“Io non rimarrò, sono di passaggio ovunque”.
“Ovunque in che senso?”
“Mi hanno già accolta diversi come te, da ognuno ho preso ciò che chiedevo, tu sei il settimo”.
“Dopo il settimo, che io sappia, non c’è niente”.
“Vero”.
Con Zoa vissi le quattro stagioni come dovevano essere in altri tempi lontanissimi. Uscivamo entrambi a piedi nudi perché lo esigeva, sentivo il terreno vivere e noi con lui.
“A che ti servo, Zoa? Mi hai insegnato tu il segreto dei cicli”.
“Mi servi ora. Sei un artista…”
“Lo ero”.
“Lo sei. Ricorda la foglia, guarda me, fai quello che hai sempre voluto”.
Ci misi tre giorni per capire.
“Entra”.
Zoa entrò nella gabbia di legno, dentro c’erano foglie e rami spezzati e il terreno e così lei poté stendersi dentro, acciambellarsi, chiudere gli occhi.
La gabbia era posta su una radura, gli alberi altissimi facevano ombra e il sole calante filtrava appena, a spilli.
Chiusi le sbarre, lei dormiva.
Afferrai il capo di una corda, collegata a un sistema a carrucole, e la tirai.
La gabbia salì, lenta, e lo fece fin quando la vedevo appena. Doveva essere quasi all’altezza delle punte degli alberi. La chiamai, non mi rispose.
Guardai in alto, vidi che foglie, rami e terreno se ne andavano col vento. Poi la sua veste lunga e sottile fece lo stesso. A quel punto calai la gabbia.
Dietro le sbarre vidi Zoa, i suoi capelli, i peli del pube e delle ascelle, la pelle bianca, gli occhi piccoli, le labbra rosse.
“Dimmi cosa vedi” mi disse.
“Ti vedo nuda”.
“Dimmi cosa vuoi” mi disse.
“Voglio entrare in gabbia e essere come te”.
Entrai, e mentre mi spogliavo di tutto il mio vestiario logoro, vecchio, tirai fuori, di mio, un corpo scuro, ruvido, e anche caldo. Stretti nella gabbia la sfiorai più volte — una gamba, un seno — e sentii al contatto il calore disperdersi e il gelo attraversarmi.
La fissavo negli occhi, e lei mi fissava diversamente. La vedevo solo io. Intanto la gabbia cominciò a salire, come l’ascensore di un tronco d’albero, e si fermò in cima.
Mi girai e dalle sbarre vidi cielo e luce rossa.
“Cosa impari?” mi chiese Zoa.
“Non lo so”.
“Pensaci, non deludermi. Sei l’ultimo. Prima di te, tutti mi hanno risposto, tutti mi hanno insegnato, tutti mi hanno preso”.
Io le davo le spalle e pensavo, mi distraevo pensandomi con lei.
“Zoa, imparo che quassù non sono solo”.
“E…?”
“E tra la terra e il cielo c’è uno spazio che non vede nessuno”.
“E…?”
“E in questo spazio io sento caldo e freddo, e non ricordo il tempo, e non mi importano più i misteri”.
Zoa non mi chiese più niente. Allora mi girai e non c’era lei, non c’era nessuno, e ancora non ero solo. Mi abbassai e toccai il fondo della gabbia: c’era altra terra, umida, che subito volò via.
La gabbia calò, sentii il cane abbaiare sempre più vicino. Uscito, corsi verso di lui e mi abbassai per abbracciarlo. Il cane mi leccò al collo, poi, a muso aperto, sembrò sorridermi.
Cosa avessi insegnato a Zoa non l’ho mai capito. Perso il cane, tre anni dopo, restai solo, mai più nessuno venne da me. E ora che sono solo ma veramente solo, sento sempre freddo, tremo, piango. Penso a Zoa.
Antonio Russo De Vivo © 2024
* La foto usata è di Cristina Eléni Kontoglou.