La grotta dei cani abbandonati

"Senza fine" di Valeria Puzzovio.

Arrivai a un punto in cui un cartello diceva “qui c’è la grotta dei cani abbandonati”. Ero stanco, avevo camminato tre ore e quaranta minuti dal basso all’alto di una montagna, tutto questo come sfida a me stesso. Io ero un tipo senza senso dell’orientamento.

Il tempo di guardarmi intorno e constatare che di grotte non v’era traccia — ma era invece tutto erba e alti alberi e natura libera — che, calato il sole e scemato il caldo estivo, tirai fuori dallo zaino un panino e un sacco a pelo e mi approssimai alla cena e al sonno.

In sogno Aku mi chiamava e abbaiando mi diceva cose cui rispondevo ma nel mezzo del rumore della grande città mi sfuggiva tutto, della nostra comunicazione. Aku era un pit nero di taglia media che tendeva al buffo sorriso. Poi lui corse via tra marciapiedi e strade e suoni di clacson e urla di bambini e io stavo lì a guardare bloccato da stupore.

Aprii gli occhi e mi fissava un pinscher. Mi ringhiò contro, abbaiò, corse via col passo saltellante della volpe e io che mi stropicciavo gli occhi non vidi intorno nulla di diverso dalla sera prima. Eccetto il sole.
Mi alzai e feci le mie cose tra gli alberi e pensai che il pinscher non esisteva allo stesso modo della grotta che nemmeno esisteva. Poi pensai a tutto quello che mi ero lasciato indietro ai miei attuali venticinque anni ovvero alla mia famiglia d’origine, agli amici, agli studi, al passato, al presente, al futuro. In mezza giornata di assenza mi sentivo già, rispetto alla vita, uno scomparso. Dopo se ne sarebbero accorti tutti, che non c’ero più, tra un giorno o due. Non potevano mica sapere che, una volta partito per la montagna, ero subito uno scomparso.

Il mio nome è Tino, da Fausto che è il nome ufficiale mai usato da me e dalle persone a me vicine. La mia vita, giunta a un quarto proprio ieri, a mio parere è stata inutile. Non ho salvato nessuno, non ho compiuto imprese gloriose, sono stato banalmente amato e odiato e poi dimenticato da tre ragazze che io ho ugualmente amato e odiato e poi dimenticato, lo stesso mio futuro non prevede imprese. Mi hanno insegnato a studiare, lavorare e a creare una famiglia, tre punti fermi sui quali sono certo di non avere alcun talento. Va da sé che al mio compleanno, ieri, malumore e poi disperazione mi abbiano guidato qui, in montagna. Avrei dovuto lasciare un biglietto, forse. Avrei dovuto portare il telefonino. Avrei potuto fare tante cose ma poi che scomparso sarei stato, facendole?
Eccellendo nella mia totale incapacità di orientarmi nei luoghi, pensai male di inoltrarmi subito nel bosco. La noia, da un lato. L’accettazione del mio attuale status, dall’altro: scomparso per tutti, dovevo esserlo anche per me.
Non vidi animali, nel bosco, né insetti. Solo piante. Mi avvicinai agli alberi per toccarli, mi abbassai a tastare il terreno. Tutto normale, se non quel senso di vuoto, di silenzio, di immobilità estiva. Fortuna che l’ombra di quelle altissime cattedrali naturali impediva al caldo di abbattermi. Proseguii.
Tra le foglie larghe, in alto, vidi il sole nel suo miglior momento della giornata. Mi sedetti sulle grosse radici di un albero qualsiasi, schiena al tronco, e iniziai a mangiare un panino. Bevvi un succo di frutta a pera, a conclusione del pranzo. Dopodiché, braccia legate dietro la nuca, espressi il desiderio di ricadere nel sonno.

Aku ancora e ancora e ancora mi parlava e mi sorrideva. Aveva il collare ma non il guinzaglio, anomalia onirica dato che mai, in città, avevo passeggiato con lui senza legame.
Io stringevo gli occhi, mi grattavo i capelli lunghi, insomma facevo di tutto per fargli intendere che proprio non lo capivo, ma lui insisteva.
A una certa gli presi la zampa, gliela carezzai, gli dissi “Aku, non so che stai dicendo”. E lui? Smise di ridere e corse tra marciapiedi e strade con la gente che lo indicava preoccupata. Ero preoccupato anch’io.

Ancora il pinscher. Mi fissava, mi ringhiava, mi abbaiava, “Tu cosa vuoi?” gli dissi. Lui mi voltò il sedere e la coda e scappò via, a passo saltellante di volpe. “Tutti i cani mi scappano”, pensai. Ma il pinscher mi lasciò una traccia, prima di sparire tra gli alberi: un sentiero blu su verde erba. Io mi alzai per percorrerlo con la prevista stupidità di tutte le storie della Storia del mondo, sicché un gufo nero enorme sul ramo che a stento lo reggeva me lo fa notare, mi disse “Tino, ma ti pare il caso?”. Mi sentii uno scemo. “Mai accettare sentieri sconosciuti da animali sconosciuti!” aggiunse. Io però pensai che quel momento non avrebbe avuto più senso se non avessi fatto la cosa più ovvia, e il gufo borbottava come un tedioso vecchiaccio a conferma che dovevo andarmene e fare l’esatto contrario di quanto mi consigliava. Misi piede sul sentiero blu, il sentiero blu divenne un ruscello, dal ruscello saltavano pescetti rossi che dicevano seguici seguici seguici e io li seguivo.

Dopo un po’, o forse dopo parecchio chissà, da una pietra in mezzo al sentiero una grossa rana di uno sgarciante e smargiasso color rosso mi intimò di fermarmi. “A che pro?” chiesi a costei che si autoproclamava regina dei ruscelli. “Tino” — per un qualche motivo che temevo di approfondire, qui tutti conoscevano il mio nome — “ma ti pare il caso?”
“E che devo fare? Non ho proprio niente da fare!”
“Per l’amor di dio, fai! Se pensi di non poterti fermare, fallo. Pensaci un attimo, però se vuoi fallo.”
Le parole della rana mi fecero dubitare. Mi sedetti sulla pietra, accanto a lei, e mi sforzai di pensare a cosa potesse attendermi alla fine del sentiero. Non mi veniva in testa nulla, così pensai male di fare qualche domanda alla regina dei ruscelli. Ella dormiva, ma proprio prese a russare, ed era di un rumoroso che io mi alzai e andai via solo per non sentirla.

I pescetti rossi saltavano e dicevano seguici seguici seguici, il sole restava a picco su di me come il tempo si fosse fermato, nemmeno io mi sentivo troppo bene. Per quanto mi sforzassi di immaginare, l’unica cosa che mi venisse in mente era che quel sentiero blu liquido ruscello mi avrebbe condotto alla grotta dei cani abbandonati.
E infatti così fu.
Il sentiero finì su un tronco d’albero tagliato che aggirai per poi trovarmi davanti esattamente la grotta suddetta. Nessun imprevisto. Sopra l’arco di pietra dell’ingresso c’era scritto GROTTA DEI CANI ABBANDONATI, e accanto al nome della grotta c’era un disegno piuttosto brutto di un pinscher marroncino con l’espressione arrabbiata. Il solito pinscher. Sotto l’arco, naturalmente, il buio dell’ignoto profondo.
I pescetti rossi prima di andarsene mi sconsigliarono di entrare, io sommessamente gli feci notare che avevo seguito loro sin lì, e tutti a guardarsi con quegli occhietti sempre stuporosi ma di uno stupore che in quel momento aveva senso. Loro se ne andarono e io entrai in grotta.

Una volta dentro, si accesero dei neon in cima, a qualche mentro dalla mia testa, e vidi che le pareti della grotta erano tutte scarabocchiate. Mi venne incontro un inuit, era un uomo vestito da inuit e cioè una pelliccia bellissima quanto totalmente inappropriata al clima — io ero in maglietta a mezze maniche e pantaloncini da calcio, dato il caldo — l’uomo vestito da inuit però non sudava, non pareva percepire il caldo.
“Vai sempre dritto” mi disse. E grazie: quella grotta era solo dritta.
Mentre camminavo sentivo sempre più freddo e anche per non pensarci (se pensi al freddo farà freddo, mi aveva detto sempre mia madre, d’inverno, a riscaldamenti spenti) guardavo gli scarabocchi che erano disegni rudimentali, grotteschi, di cani di ogni tipo e misura, tutti meticci.
Alla fine, distrattamente, la grotta finì.

Mi fermai al cospetto di un trono che era una alta e larga sedia di legno. Era così larga che vi stava stesa, testa in giù e lunghissimi capelli a terra, una fanciulla con un pigiama rosa che non ne risaltava le forme del corpo e che aveva anche una coda rosa. Un pigiama da pantera rosa, insomma. Io risi e la fanciulla, nascosta tra i capelli, disse “cosa ridi, mocciosetto!”, e quando alzò la testa tra i capelli spuntò un viso paffutello con qualche brufolo perché lei era più mocciosa di me.
“Sono Shay, vent’anni venti, e sono la regina dei cani abbandonati. Inchinati e baciami il piede.”
Intanto si era messa comoda, la parte davanti del pigiama era bianca e piatta tanto era secca, e mi porse il piede coperto dal tessuto del pigiama che sembrava pelle di peluche. Io eseguii, e lei fece mmmmm come se le piacesse.
“E tu chi sei, mocciosetto? E soprattutto: chi ti credi di essere?”
Finalmente qualcuno che non sa il mio nome, pensai.
“Sono Tino e ho ben venticinque anni, non sono un mocciosetto!”
“Ah, ha un bel caratterino, il mocciosetto…”
E a quella battuta seguirono tanti abbai che mi risuonavano come tante risate.
“Ma da dove vengono queste risate?” chuesi.
“Ma Tino, non li vedi tutti i miei cani?”
Usai la logica, sicché capii che si riferiva ai cani raffigurati sulle mura della grotta che ai miei occhi restavano grotteschi disegni bidimensionali muti.
“Come mai sei qui?” mi chiese, e io le risposi che mi ero solo lasciato andare al flusso, che il flusso mi aveva portato lì.
“Male. Non ti hanno insegnato, i tuoi cani, che non ci si deve mai e poi mai lasciarsi andare?”
“Se ti riferisci a Aku, no, esattamente il contrario, anzi”.
“E dove si trova, adesso, questo Aku?”
“Ehm… è sparito, mi ha abbandonato. Una volta, in città, ha tirato il guinzaglio così forte da strapparmelo dalle mani e l’ho visto andarsene, tra marciapiedi e strade e clacson e urla di bambini”.
“Appunto”.
Diventavo sempre triste a pensare Aku che mi abbandonava, nonostante fossero passati ormai dieci anni.
Né capivo quell’“appunto” della regina pantera rosa detto con quel sorrisino presuntuoso. Aveva un bel naso di volpe, Shay, glielo dissi. Lei arrossì.
“Dunque, mocciosetto, allora sei qui perché sei un cane abbandonato”.
“Sì, ma no, non sono un cane”.
“Dettagli, dettagli…” disse la regina, “è evidente che lo sei, anche se non sembri proprio un cane, tanto sei brutto”.
Io misi su un muso lungo, e mi venne la pessima idea di assecondare la mia fame. Aprii lo zaino e tirai fuori un lungo panino con cotolette e formaggio e insalata e appena lo tirai fuori la regina urlò “noooooooo” e fu il caos primordiale. Tutti i cani vennero fuori dalle pareti, erano tantissimi, e tutti avevano le orecchie all’insù e la lingua fuori. Avevano evidentemente fame. Io staccai una parte del mio panino e la lanciai in alto e quella parte si moltiplicò in tante parti, una per ogni cane.
“Woooooow” disse Shay, “ma allora sei proprio tu”.

La regina sorrideva felice e la sua coda rosa si muoveva come quella di un gatto, ma io non capivo chi fossi, ovvero chi lei credeva io fossi.
“Regina, io sono solo un ragazzo confuso, senza alcun senso dell’orientamento”.
“Appunto”.
Lo disse di nuovo. Dopodiché iniziò a parlare e io mi sedetti a terra per ascoltarla, ma io non la capivo più. Parlava come mi parlava Aku in tutti i miei sogni, e allo stesso modo in cui non avevo mai capito Aku in tutti i miei sogni, così non capivo la regina Shay. Tuttavia annuivo, e lei continuava. Dal tono e dalle sue espressioni il suo discorso mi sembrava a tratti una morale a tratti la Storia delle storie. Seduti vicino a me c’erano i cani abbandonati, e anche loro annuivano. Io però mi ribellai a me stesso: per una volta volevo capire, e dissi “Regina Shay, puoi ripetere?”. Lei mi disse “ora te lo ripeto nella tua lingua sbagliata” solo che appena aprì bocca si sentì la grotta tremare e una serie di scoppi.
“Cos’è?”
“Eh… Tino, non senti? Sono le dinamiti”.
Mi disse quella cosa che doveva essere gravissima con una faccia tranquillissima. Non era per niente turbata dalle pietre della grotta che cadevano ovunque e dai cani che abbaiavano mentre si lanciavano contro le pareti della grotta per sparire, e dallo stesso suo trono che le scricchiolava sotto.
“Dobbiamo scappare!”
“Ma assolutamente no!” mi rispose.
Io rimasi seduto come lei, e lei nella mia lingua sbagliata mi disse che gli uomini sono cattivi, che i cani abbandonati li odiano e li amano ed è così per sempre, che lei per quanto raccontasse loro favole animali, senza alcun uomo, non riusciva a fargli dimenticare i loro padroni.
Mi stavo commuovendo. Pensavo a tutti quei cani al momento dell’abbandono, legati al guinzaglio in qualche luogo disperso, che latravano e latravano e non riuscivano a sciogliersi e poi, ognuno a modo suo, si ritrovava abbandonato, disperso.
“Una volta abbandonati, i cani si perdono, perdono del tutto il senso dell’orientamento”.
“Ah, come me!”
“Sì, proprio come te”.
“Ma io non sono un cane…”
“Sì che lo sei, Aku”.
Ora avevo capito, e a quel punto la grotta mi crollò addosso.

Antonio Russo De Vivo © 2024

* Il disegno è Senza fine, di Valeria Puzzovio.

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