In occasione della recente uscita di Demolition Job. Lettere all’usurpatore (Edicola Ediciones, settembre 2023) – opera definibile coraggiosamente “raccolta di cinque racconti” e, meno coraggiosamente, opera indefinibile – sono tornato a fare i conti, ahimè, con l’autore (e narratore?) Alfredo Zucchi (Napoli, 1983; attualmente latitante in quel medesimo spazio mitteleuropeo che non ebbe pietà nemmeno del suo più illustre aedo: Robert Musil).
Compagno di lotte nei bei tempi (2014-2019) in cui condividemmo la direzione della rivista estremista CrapulaClub [da lui stesso fondata (2008) e assassinata (2019)];
antagonista al me-editor in quanto feci editing a due sue opere [il romanzo d’esordio La bomba voyeur (Rogas, 2018), insieme a Antonia Santopietro; il “saggio di saggi” Una possibilità del linguaggio. Pierre Menard come metodo (Mucchi, 2021)];
Alfredo Zucchi – intellettuale, scrittore, co-editore (socio della casa editrice Wojtek Edizioni), editor lui stesso – mi sottopone sempre alla tortura del “pensiero passivo” (così definisco quella modalità di pensiero stimolata dal piacere di leggere, ovvero da un’azione che vorrebbe essere riposante e deresponsabilizzata e viaggio mistico nella mente dell’altro quando non diventa, come nel caso-Zucchi, scontro di menti altere e alterate) cui segue sempre, essendo io pensatore non-masochista se non voluttuosamente sadico, una reazione violenta in quanto viola, volutamente, la forma testamentaria immobile della scrittura:
è impossibile, leggendolo, non domandarsi / è impossibile, domandandosi, non domandare (ossia prendere a testate la testa del testatario che sola può tastare il testo testato fino al punto di collisione e di collusione: il punto, appunto).
Le intelligenze artificiali sognano?
Ci sono vari modi per rispondere a questa domanda, ne verbalizzo uno: in un certo senso, non mi sento meno artificiale di un’intelligenza artificiale.
Se esse non sognano, non sono persone e dunque: non sono autori. Però sono intelligenze creatrici.
Dopo la morte dell’autore che cosa si prospetta? Qual è la tua visione?
Io parlo di “autore” perché credo prima nella persona e poi nell’opera; tu invece parli di “narratore”, perché?
Io vedo arte, in senso lato, in ciò che non verrà prodotto durante il nuovo conflitto (totalizzante a causa dell’immaginario incatenato al mercato / dopo questo conflitto ve ne saranno altri, di conflitti, intervallati da momenti di sonno della ragione ordinante) tra persone creatrici e non-persone creatrici (le intelligenze artificiali).
La figura del narratore in Demolition Job ha principalmente una funzione normativa. Per questo, come con la figura della morte, si presume che il narratore sia un’istanza fuori dai giochi, se non che poi le cose sono surdeterminate e – il narratore muore; qualcuno uccide il narratore; qualcuno intende prendere possesso dello spazio da cui il narratore parla. È una lotta intestina, microscopica.
Se consideriamo i fattori in gioco in Demolition Job, cioè la tecnologia della rappresentazione che mette in atto, la persona dell’autore è troppo schiacciata, schiavizzata, agita per aprire bocca. Mentre scrivo queste frasi mi rendo conto che l’autore stesso (io, in questo caso) ha dovuto condurre una specie di lotta nel fango col narratore. Ma se lui ha perso, io non ho vinto; ha vinto qualcun altro: chi volerà oltre.
Su un piano diverso, vedo l’interazione con le “macchine pensanti” come una strana possibilità: il territorio della letteratura si assottiglia, cresce la densità col diminuire dello spazio. [Si potrebbe addirittura cooperare: se io avessi una macchina pensante in grado di mettere ordine tra gli appunti estremamente caotici e ansiogeni di un testo lungo a cui lavoro dal 2014, forse le mie mattine sarebbero più serene e potrei transitare dalle sessioni di scrittura a quelle di lavoro per campare senza quel sentimento di frenetica autoamputazione che mi accompagna ogni giorno. Un caro amico scrittore, in una chiacchierata recente, ha definito il tentativo di produrre testi lunghi, lunghi e complessi, lunghi complessi interconnessi e totalizzanti (non chiamiamoli più romanzi), ha chiamato questo tentativo “tortura psichica”. Vedo una clinica per torturati psichici, con le macchine pensanti a fare da infermieri e segretari – no, sembra il sogno a occhi aperti di Elon Musk. Mi tengo allora il mio duplice ruolo: scrittore, da una parte; e infermiere e segretario, macchina pensante di me stesso.]
Vedo un assottigliamento, una rarefazione, un movimento di messa all’angolo (mise en abyme) della letteratura non dissimile a quanto già accaduto, nel tempo, col venire in auge di altre forme (in particolare audiovisuali). Paradossalmente, questa stretta alla gola avvicina il testo letterario al cuore del conflitto.
Cosa intendi per conflitto? Cosa intendi per usurpatore?
Forse a questo punto la domanda non è se le AI sognano, ma se desiderano.
In Demolition Job il piano del sogno ha a che vedere con l’insistenza, cioè con il tornare, ossessivo e ricorsivo, su un certo nucleo che sbatte. Là c’è qualcosa, la cosa che tira; là c’è il conflitto.
In questo senso (non fa ridere), il conflitto riguarda una sorta di dato psichiatrico, una resistenza interna: la sua base è un rifiuto, un diniego; si parte da qui.
In altri testi, soprattutto nel romanzo La bomba voyeur, ho provato a dare, se non una risposta a questa domanda, quantomeno un orizzonte: sfidare il senso ad apparire. Si tratterebbe di fare del testo letterario un meccanismo, uno spazio, un agone di produzione di senso. Si tratterebbe anche di svincolare il piano del conflitto da una dimensione puramente soggettiva e individuale. In Demolition Job è all’opera un noi che parla di questo.
Circa l’usurpatore: se uno fosse ad esempio Žižek, gran insalatiere di insalate miste, potrebbe dire al volo che l’usurpatore è il Grande Altro. Ma in Demolition Job l’usurpatore è prima il doppio, poi è il legislatore, poi è il narratore, poi è la voce della cosiddetta coscienza infelice, poi, per finire (e che cazzo!) è il lettore stesso, mon semblable, come scrive Baudelaire in testa a Les Fleurs du Mal. È una casella mobile e vuota, che si sposta, si muove: segue le direttrici della cosa che tira, ti sta sempre addosso, o di lato. È il controcanto costante nel canto amebeo del pensiero. Non è meramente il nemico o l’avversario, è una fenditura.
Cosa traccia, nel tuo percorso/processo creativo, questa non collocabile opera che è Demolition Job?
Demolition Job ha la forma della rincorsa alla cosa che tira.
Non ti nascondo che, nonostante la sua brevità (o forse a causa sua), la chiusa di questo testo mi ha creato molti problemi. Ho cercato di fare due cose.
La prima riguarda l’uso dei procedimenti combinatori e intertestuali in chiave esplosiva (o implosiva): ogni frammento testuale è la storia di qualcosa, di un oggetto; ogni manipolazione è la sottrazione di questa storia; Demolition Job è la rivolta simbolica degli oggetti.
La seconda riguarda l’uscita dalle inerzie (artistiche e letterarie) del negativo. Non si può restare per sempre a giocare con la bambole dark del nonsenso. Si affaccia un’idea di responsabilità della costruzione (una forma di utopia della costruzione) di cui vorrei farmi carico, nel mio piccolo, cioè nello spazio, in qualche modo ridicolo e irrisorio, che sono riuscito a ritagliare, nel tempo, per la mia voce letteraria.
Il fatto dirompente (che ho dovuto registrare in questi anni: Demolition Job è anche un resoconto sperimentale di questo dato) è che la voce letteraria, con la sua visione totale, vuole uscire fuori e conquistare lo spazio dell’agire nel reale.